La terapia in età evolutiva, che cos’è e quando è utile
Per età evolutiva si considera quel periodo del ciclo di vita che va dalla nascita fino a circa 18 – 20 anni.
È il periodo in cui avvengono i cambiamenti che renderanno più o meno stabile l’equilibrio del futuro adulto.
Dai 18 – 20 anni a circa i 24 – 26 anni si parla di età giovanile e successivamente, di età adulta. Le oscillazioni, in questo periodo storico, sono dovute al fatto che l’età adulta, in quanto capacità nell’affrontare la vita con le sue sfide, si è spostata in avanti.
In sostanza, bambini e adolescenti, appaiono meno attrezzati ad affrontare le difficoltà che l’esistenza pone loro di fronte, e più inclini a permanere in una condizione regressiva di scarsa autonomia, rispetto al nucleo familiare d’origine.
Naturalmente, non si vuole fare qui un’analisi del perché questo accade oggi, quello che è importante sapere è che i ragazzi, attualmente, appaiono più fragili e hanno più bisogno di essere aiutati. Inoltre, è aumentata la consapevolezza dei genitori che, più spesso del passato, chiedono supporto allo specialista.
Prima dei 3 anni, è difficile che un bambino venga condotto da uno psicoterapeuta dell’età evolutiva, sono piuttosto i genitori che vi si recano per chiedere consiglio circa le dinamiche comportamentali che interessano il bambino nelle interazioni con gli adulti di riferimento. Il terapeuta, può chiedere di osservare il bambino, sia da solo che nello scambio col genitore, in modo da valutare lo stato delle cose e consigliare il modo migliore per intervenire qualora lo ritenga necessario. Talvolta, può chiedere che venga consultato un altro specialista per completare la sua valutazione diagnostica. Può avvalersi della collaborazione di un neuropsichiatra infantile, di uno psicomotricista, di un logopedista, di un pedagogista, a seconda dell’intervento che ritiene più indicato al caso specifico.
Quando il bambino è molto piccolo, e ha un temperamento ostinato, è frequente il caso in cui i genitori chiedono allo specialista indicazioni su come comportarsi. La domanda più frequente è: “come faccio a essere un buon genitore? Come faccio a essere ascoltato?”. Molto spesso è l’inquietudine dei genitori, circa l’efficacia del loro ruolo, a portarli dal terapeuta. In realtà questi adulti si sentono responsabili del difficile compito che si sono assunti mettendo al mondo un figlio/a, e cercano di svolgerlo al meglio di quello che possono e che sanno. La complessità del tempo presente, non rende facile il loro ruolo, spesso si sentono disorientati e per questo chiedono aiuto.
Esistono programmi di aiuto alla genitorialità che si possono svolgere con una singola coppia, oppure in gruppo e che sono molto efficaci in questi casi; vengono definiti gruppi di Parent training in cui i genitori vengono allenati allo svolgimento del loro compito e si sentono sostenuti psicologicamente.
Altro caso in cui sovente ci si rivolge al terapeuta è quando l’insegnante di scuola elementare (5 – 10 anni) suggerisce un consulto da uno specialista. Accade quando, ad esempio, il bambino/a è turbolento, non sta mai fermo, disturba la classe, è irrequieto, oppure è isolato, piange spesso e rifiuta l’interazione con i pari. In questi casi è opportuna una analisi complessiva in cui vengono somministrati anche dei test per valutare gli aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali. È frequente, in questi casi, che lo psicologo contatti l’insegnante che ha segnalato il comportamento disfunzionale, il pediatra se necessario, e quanti possono essere utili, a vario titolo, a comporre il puzzle psicodiagnostico. L’assessment in età evolutiva, infatti, è un processo in cui ogni pezzo è significativo, perché aiuta a disegnare la complessità e l’unicità del bambino/a.
Quando la valutazione è completata, lo psicologo stende una relazione, nella quale descrive il processo di valutazione, gli strumenti che ha utilizzato, le conclusioni cui è pervenuto e, in conclusione, il trattamento consigliato che può, in alcuni casi, coinvolgere anche altri professionisti del settore.
La terapia in età evolutiva è differente dalla terapia rivolta all’adulto. Il bambino è in evoluzione e necessita di un approccio completamente diverso.
Da anni nel mio studio, l’approccio è contemporaneamente rivolto al bambino e al genitore: fino a circa 8 – 9 anni la terapia si svolge con la porta aperta; il genitore, nella sala attigua, può ascoltare e osservare il modo in cui interagire efficacemente col bambino/a, in modo da poter ripetere a casa, al bisogno, le strategie apprese.
Ogni bambino/a, a seconda delle conclusioni emerse dal processo di assessment, farà una terapia disegnata appositamente per lui/lei.
La terapia dai 10 anni fino ai 18 anni circa, cambia; dipenderà anche dallo stato di evoluzione personale del soggetto: ci sono pre-adolescenti che si trattengono più a lungo nella fase infantile; come adolescenti che risultano più indietro rispetto ai loro pari e non per un deficit intellettivo. La psicoterapia, in questi casi, è un abito che va aggiustato sulla singola persona.
La fase dell’adolescenza è un periodo del ciclo di vita molto delicata. È questo un momento in cui, spesso, è proprio il ragazzo/a a chiedere aiuto ai genitori. Quando succede, la terapia comincia meglio di quando l’adolescente è spinto dal genitore alla cura.
La sofferenza che un adolescente porta in psicoterapia può avere cause molteplici e complesse e tutte vanno valutate con attenzione. Possono derivare da fattori naturalmente attribuibili alla fase di vita (nel caso più semplice), oppure derivare da cause esterne e più complesse.
Qualunque sia la causa del disagio psicologico, è importante che lo si affronti per non lasciar sedimentare pensieri ed esperienze negative che più avanti potrebbero diventare ostacoli enormi da superare.
Prevenire meglio che curare.
È necessario tenere presente che un adolescente sano, dovrebbe essere attivo su più fronti: studiare con profitto, avere amici con cui fare e condividere esperienze, avere delle passioni, fare esercizio fisico, alimentarsi in modo sufficientemente adeguato, avere progetti ed essere capace di portare a termine quello che intraprende, essere capace di prendersi cura di sé e degli altri empaticamente.
È naturale che possano esserci degli ambiti più sviluppati di altri, in cui vengono investite più energie e risorse personali ma, in linea di massima, l’ambito familiare, scolastico, sociale, dovrebbero essere spazi sufficientemente frequentati. Un genitore deve osservare a distanza, senza essere intrusivo. Bisogna sottolineare che è difficile che un comportamento disfunzionale compaia all’improvviso; un genitore, che conosce abbastanza il proprio figlio/a, sa che il suo disagio ha origini in un tempo passato.
Per comprendere se una condizione esistenziale nell’adolescente sia preoccupante o meno, consiglio sempre di valutarne la durata, la frequenza e la ricorrenza. Sono indicatori efficaci per valutare la necessità di un intervento, a meno che non si tratti di atti autolesivi, in tal caso, si interviene immediatamente.
Gli atti autolesivi ricorrono oggi in adolescenza più di quanto sia avvenuto nel passato. Secondo studi recenti, variazioni profonde dell’umore, depressione, stati d’ansia, ma anche disturbi alimentari, possono condurre a questa pratica l’adolescente che, prova a regolare il proprio stato interno disregolato, attraverso questa strategia disfunzionale di coping.
È molto importante dire ai propri figli, che ci sono professionisti in grado di spiegare loro come funziona la mente umana e il comportamento delle persone e, se hanno necessità di fare chiarezza dentro di loro, per i più svariati motivi, possono contare sul loro aiuto.
Anche nei casi più favorevoli, in cui figli e genitori vanno d’accordo, ci sono ambiti in cui è giusto che l’adulto resti fuori, osservi da lontano senza intromettersi. Al tempo stesso, è importante non lasciare l’adolescente a se stesso perché le fonti a cui può attingere le informazioni di cui ha bisogno, sono di natura ambigua (passa parola, internet) e molto spesso fuorvianti.